Continuazione della storia di una Sicilia lontana, tra i ricordi dei racconti di Verga e il linguaggio colorito di Camilleri
Dopo che gli contai tutto, mi cominciò a spiegari come vanno le cose tra masculi e fimmini quanno si crisci e si addiventa ranni. Mi contò che se la sburra finisce tra le cosce possono nasciri picciriddi e tante altre cose che Fofò non ci aveva mai contato a Mimì. Mi disse che andava bene dargli piacere al signorino, che anche quello era il dovere di noi serve e che quasi sicuramente il signorino un giorno mi avrebbe chiesto di infilare la minchia tra le mie cosce. All'inizio mi avrebbe fatto male ma poi mi sarebbe piaciuto. Non gli avrei dovuto dire di no a Mimì, una serva non lo deve fare mai, quello che invece avrei dovuto imparare era di accorgermi quando stava per sburrare e farglielo fare fuori. C'erano tante cose che avrei potuto fargli: usare le mani, mettere la minchia tra le cosce e dopo un po' prenderglielo in bocca e farlo sburrare così o ancora mettermi io sopra a iddro e satare via quanno era ora di sburrari. Se avessi avuto un picciriddro e Don Mario l'avesse saputo sarebbe stato un inferno per lei e soprattutto per me, ci avrebbero potuto assicutare e trovare una nova casa sarebbe potuto essere un problema. Avremmo potuto moriri di fame e io mi sarei scordata per sempre di poter serviri Mimì.
Dopo tutte queste spiegazioni arrivò la più importante: da quel giorno e fino a quando sarebbe stato possibile, mia madre sarebbe venuta al pagghiaro quando si fosse fatta ora di rientrare a casa, facenno scruscio come aveva fatto quella sira. Io avrei dovuto darmi da fare a rendere presentabile il signorino in modo che tornasse a casa senza che i padroni si accorgessero di nulla.
La sira dopo cuntai quasi tutto a Mimì, gli dissi della protezione di mia madre ma non della minchia tra le cosce e del problema del picciliddro. Lasciai che scoprisse Mimì, tramite i racconti di Fofò, comu si arrivava a tanto. Nel frattempo facivamo pratica con altre cose e io imparavo a capire dai sospiri e dai movimenti di Mimì quando arrivava il momento di sburrari. Arrivò il jorno in cui Mimì mi chiese di mettere la sua minchia tra le mie cosce. Lo lassai fare cercando di preparandomi al momento che avrei potuto provare dolore, momento che non arrivò mai, forse perché nei jorni successivi alla spiegazione di mia madre avevo provato a farmi una idea del tipo di dolore che avrei potuto sèntiri usando un citrolo; avevo sentito un po' di fastidio, come un bruciore, che dopo un po' era andato via. Seguii le raccomandazioni di mia mamma: conoscevo ormai così bene Mimì da sapere benissimo quando era ora di sburrare. E ogni volta riuscivo a evitare quello che per me sarebbe potuto significare 'il peggio'.
A Mimì, preso com'era a sburrare, non importava di dove e come lo faceva, voleva solo sburrare, anche più volte durante la stessa sera. Lo faciva sentiri bene, gli sbacantava la testa di tutti li pinzeri, bonino tinti chi fussiru. Lo tenni a menti: mi sarebbe sirvuto per il resto della mia vita accianco a Mimì.
Passarono gli anni e alla casa rimanemmo io e Mimì. Se ne andarono nell'ordine Donna Susanna, mia madre e infine Don Mario. Come aveva promesso tanti anni prima, Mimì mi mandò a la scola per imparare a scrivere e fare di conto, e adesso oltre a tenere la casa aiuto anche il signorino a tenere li cunti. Cangiarono piano piano li cosi tra me e il padrone che cominciò a guardarmi più come una serva che comu una fimmina. Ma non potevo pritenniri altro di lui. Nascivi serva e morirè serva. Tutto quello chi avia mi abbastava e certi voti mi sembrava perfetto: facevo tutti i miei sirvizzi e la sira, dopo cena, invece che lu pagghiaro c'era quella petra davanti la porta, accianco a la so seggia dove mi andavo ad assittare per sentire il suo rispiro e capiri se la so testa era troppo china di pensieri. Era tutto pirfetto, sia li jorna che Mimì se ne annava a curcare solo, sia li jorna che abbisognava de la me vucca, del mio sticchio o del mio culo sulla sua minchia per attrovare il sonno. Era tutto pirfetto. Finché un jorno a Mimì gli è venuto in testa che doveva trovare una moglieri, qualcuna che avesse portato a la so casa e a li so terre un titolo nobiliari.
Ma la pasta dei nobili è molto diversa da quella di cui è fatto il mio Mimì e aviri tanti proprietà e li i sordi non è sufficiente a esseri accittati da chi vanta uno stemma di famigghia.
Mimì è sempri stato tistardo: quannu si mette una cosa in testa la fa e basta. E accussì lassau a mia, la casa e tutti li proprietà pi annare a maritarisi la nobbile Donna Lucia in Palermo. Comu c'era da immaginarisi Mimì fu schifato da tutti li parenti di Donna Lucia. Anche idda lu schifa ma però se lo teni stritto per i soldi che c'ha e se lu teni in casa per viviri mantinuta.
Nun pozzu chianciri pi la sorti chi attuccò a lu me patruni: a una serva non è permisso manco quanno tagghia le cipudde. Ma si mi si putissi concediri un sulo desiderio vulissi atturnari a li siri pirfetti, vulissi attaccari Mimì con una corda a sta seggia vacante pi farici capiri chi dintra a sta casa c'è tutto chiddro di cui lui abbisogna.
Forse un jorno tornerà, mortu, dintra un tabutu di ligno. Si tornerà vivu sugnu sicura chi sarà mortu dintra, pi tutti li 'miliazioni chi la famigghia di Donna Lucia gli ha dato. Io l'aspettu, ogni sira, assittata ca', acciancu a la so seggia pronta a sbacantarici la testa comu sulu iu sacciu fari.
Lu farò sburrari dintra di mia, tra li cosci, arriscanno di essere assicutata pi aviri avutu un figghiu so'. Nun sugnu foddri, no: vogghiu un Mimì nicareddru tuttu miu chi arresti cca, acciancu a mia e a la casa.