Scritto di fretta, privo di rilettura e di correzioni...la storia di una signora bene e di un disperato...
La pelle nera come l'ebano che contrastava con il bianco dei suoi occhi vispi faceva sempre un affetto strano a Simona ogni volta che lo vedeva.
Mustafà, immigrato irregolare, sebbene vivesse in una casa diroccata accanto alla sua, salutava Simona come se fossero vicini di casa.
Lei, signora impettita, rispettata e riverita da tutto il paese, inizialmente aveva risposto al magrebino con dei sorrisi.
Poi, con il passare del tempo si era lasciata andare a un timido saluto: sebbene Mustafà fosse un poveraccio si era sempre dimostrato gentile nei modi.
Lavorava, si fa per dire, in spiaggia: dalla mattina al tramonto sotto il sole cocente Mustafà con il suo vestito leggero andava su e giù cercando
di vendere collanine e braccialetti apparentemente tipici del suo paese. E quando incontrava Simona sotto l'ombrellone non mancava mai di salutarla
con il suo tipico "Giao signora!"
Ma l'appuntamento fisso tra Simona e Mustafà era dopo il tramonto, quando la frescura della sera concedeva un po' di respiro agli abitanti del paese
sostituendosi all'afa opprimente del giorno. Simona, indossato un comodo e ampio abito, usciva con il suo cagnolino dalla sua villetta e andava a farsi una passeggiata.
Passava davanti la casa sgarrupata dove Mustafà si era rifugiato all'inizio della bella stagione e lo vedeva seduto sulla veranda circondato a volte da alcune candele
accese.
"Giao signora!" - le diceva alzando la mano.
Simona rispose con un gesto del capo e girò l'angolo per proseguire in direzione della piazza centrale.
Andava in piazza ogni sera Simona, con la scusa della passeggiata con il cagnolino e l'appuntamento fisso con le amiche di sempre.
Si sedeva su una delle pachine, a volte prendeva un gelato, dopodichè iniziava a parlar male del paese.
Aveva sempre da ridire su tutto e su tutti con le sue amiche: quello che aveva l'amante, l'altro che era gay, quella che ostentava ricchezza ma era indebitata fino al collo.
In pratica alla fine della serata veniva sempre fuori che lei e le sue amiche erano degli angeli in un mondo di poveri diavoli.
Aveva parlato male anche di Mustafà quando una sera i discorsi erano finiti su quei disperati che partiti dall'africa venivano a colonizzare il loro mondo.
"Finiremo come le loro donne, rinchiuse in casa e sottomesse!" - aveva commentato con schifo - "Entreranno nelle nostre case e ci deruberanno di tutto"
"Probabilmente ci uccideranno" - aggiunse una
"Magari prima ci violenteranno" - rispose un'altra
"Forse meglio la seconda...chissà..." - disse la terza - "...ho sentito dire che la maggior parte hanno una dotazione non da poco"
Avevano riso tutte finendo alla fine di parlar d'altro.
Quella frase però, quella sera, era rimasta in testa a Simona. Probabilmente era stato quello il periodo in cui era passata dal sorriso al saluto con Mustafà,
dopo quella chiacchierata e il dubbio atroce che sotto quel largo vestito bianco si nascondesse un bastone nero di dimensioni notevoli.
Dimensioni o no, Mustafà sicuramente sarebbe stato molto vigoroso a letto visto che era capace di resistere tutte quelle ore sotto al sole cocente.
Simona scosse la testa per scacciare via dalla mente quei pensieri sconci che erano ormai diventati anche troppo ricorrenti:
se le sue amiche avessero avuto il potere di leggerle la mente probabilmente l'avrebbero massacrata di maldicenze dopo averla eletta reginetta indiscussa
dei diavoli del paese.
Senza rendersene conto Simona si era ritrovata davanti al cancelletto semiaperto della catapecchia dove stava Mustafà.
Alzato lo sguardo in direzione della veranda lo aveva visto disteso sui cartoni, tra le candele spente.
L'aveva osservato per qualche minuto in silenzio, pensando che dormisse, stanco dell'ennesima giornata massacrante.
Sebbene ci fossero diversi metri di distanza tra il cancelletto e la veranda, Simona era in grado di vedere perfettamente ogni particolare del corpo dell'uomo:
aveva portato le mani al petto, il viso rivolto verso l'alto, gli occhi chiusi, le gambe leggermente piegate verso il basso là dove la verandina
terminava per cedere il passo a degli scalini.
Fissò per un attimo lì dove non avrebbe dovuto lasciando nuovamente che i pensieri sconci si impossessassero della sua mente:
un leggero rigonfiamento faceva capolino tra le gambe di Mustafà; chissà se...
Prima di poter rendersi conto di quel che stava facendo Simona aveva superato il cancelletto e percorso parte del vialetto che la portava alla verandina di Mustafà.
Non era agitata: la scusa di accertarsi che stesse bene, che non fosse morto, avrebbe potuto giustificare quello che stava facendo.
Lasciato cadere il guinzaglio del cagnolino, che iniziò a gironzolare per il giardino e ad annusare l'erbaccia secca,
fece un ulteriore passo in direzione dell'uomo: respirava, con il ritmo tipico di chi dorme. Mustafà stava bene.
A quel punto avrebbe potuto girare i tacchi ed andar via.
Una idea folle, insana, malata, balzò improvvisamente nella sua testa: Mustafà indossava un vestito largo, le sue gambe erano leggermente divaricate:
sarebbe stato sufficiente inginocchiarsi su uno dei gradini, tra le sue gambe, sollevare il lembo del suo vestito e...
Follia, pura follia!
Simona sorrise pensando che non sarebbe stata capace di giustificarsi con Mustafà se l'avesse scoperta intenta a fare.
Fece per tornare indietro ma le sue gambe, come se fossero dotate di vita propria, piuttosto che girarsi, proseguirono in direzione di Mustafà e si piegarono tra le sue gambe.
Cosa stava facendo?
Con il cuore in gola, la salivazione azzerata, avvolta dalla penombra lasciò che le sue mani alzassero il vestito di Mustafà fino all'addome.
Povero com'era, Mustafà non indossava mutande. Tra le sue gambe un attrezzo a riposo che difficilmente avrebbe fatto pensare a dimensioni anormali.
"Ok, Simona, hai visto abbastanza!" - disse nella sua testa cercando di darsi pace.
Le sue mani lasciarono andare il lembo del vestito dell'uomo e piuttosto che ritornare indietro si poggiarono sulle sue gambe, a pochi centimetri dall'attrezzo di Mustafà.
Con un pollice sfiorò il suo prepuzio, aggiungendo dopo qualche istante l'indice e le restanti dita.
Lo afferrò con la mano, tastandone la consistenza. Era morbido al tatto, un giocattolino simpatico che non avrebbe potuto mai raggiungere le dimensioni tanto decantate
dalla sua amica.
L'odore pungente di urina colpì le sue narici...chissà da quanto tempo non se lo lavava. E lei, una rispettabile signora, aveva avuto l'ardire di prenderlo tra le mani.
"E' assurdo! Adesso basta, Simona!" - si rimproverò.
Ma la sensazione che quell'attrezzo avesse preso consistenza tra le sue mani iniziò a soffocare la voce di quella Simona bacchettona che mai e poi mai avrebbe
approvato quello che lei stava facendo.
"Ci manca solo che glielo prendi in bocca quell'arnese schifoso!" - urlò dentro di sè la signora rispettata e temuta da mezzo paese.
Un sapore leggermente salato al tocco della lingua, un odore ancora più acre e pungente da vicino: Simona si era improvvisamente trovata con l'arnese di Mustafà in bocca.
Aveva aperto le labbra, si era chinata in avanti e, reggendolo tra le mani l'aveva fatto sparire tra le sue fauci.
Iniziò a leccarlo e succhiarlo furiosamente senza riuscire più ad aver controllo delle sue azioni: voleva vedere quell'asta dura e pulsante, voleva capire se sarebbe stata
capace di accoglierla completamente in bocca anche quando sarebbe stata in piena erezione.
Mustafà gemette.
Tra l'incredulo e l'assonnato faceva fatica a realizzare quanto gli stava accadendo: qualcuno si era inginocchiato tra le sue gambe e gli stava succhiando il pisello con passione.
Simona non aveva più scusanti per quello che stava facendo: Mustafà si era svegliato e la stava osservando mentre con bocca e lingua gli stava facendo un bel servizietto.
"Signora!" - esclamò Mustafà.
L'aveva riconosciuta. Avrebbe potuto fermarsi e scappar via, oppure...
L'asta di Mustafà era ormai diventata dura, lunga, pulsante. Le dimensioni dell'arnese adesso erano l'ultimo pensiero di Simona che, aumentato il ritmo del movimento delle mani
aveva iniziato a far su e giù con la testa: voleva sentirlo venire.
Si stava facendo scopare la bocca, le sue labbra scorrevano sulla pelle scura dell'uomo, divenuta lucida grazie alla sua saliva.
Il respiro di Mustafà si era fatto affannato e i muscoli delle sue gambe avevano iniziato gradualmente a contrarsi.
C'era quasi. Una mano scese tra le gambe a tastare le palle dell'uomo che in quel momento dovevano essere in ebollizione.
Infine un gemito, strozzato. E poi uno schizzo direttamente nel palato, seguito da un altro e poi ancora un altro.
Iniziò a gustarsi il piacere di Mustafà, facendoselo scorrere sulla lingua.
Quando si rese conto che qualsiasi movimento delle sue labbra, serrate sulla pelle scura dell'uomo, avrebbe fatto sfuggire qualche goccia, iniziò a deglutire.
Giù per la gola il sapore divenne ancora più articolato, intenso, ricco. Sentiva bruciare le pareti della gola, come se avesse mandato giù una di quelle grappe trentine
che era solita bere durante l'inverno su in baita.
Lasciò che Mustafà le scaricasse in bocca tutto quello che aveva, bevendo fino all'ultima goccia.
Poi, sinceratasi che l'uomo avesse finito, passò ancora una volta le labbra su tutto il suo arnese, lucidandolo di saliva e ripulendolo da eventuali gocce di sperma
che nel frattempo erano uscite.
Si alzò in piedi di scatto senza avere il coraggio di guardare quello che aveva fatto.
Chiamato il cagnolino, si diresse con passo veloce verso il cancelletto.
Lo lasciò lì, Mustafà, senza parole. Corse verso casa senza mai voltarsi indietro mentre il cagnolino la inseguiva trascinandosi dietro il guinzaglio.